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Pittori e letterati del 700 e 800

  Un'attività durata secoli, che riassume per intero quell’immagine dell’Italia, accattivante e sorprendente, che i pittori soprattutto, riproducevano perché più a lungo potesse durare in effigie e non solo nel ricordo, almeno di quei forestieri che potevano permettersi di caricare sulle spese di viaggio, anche questo tipo di prezioso souvenir. Il fermo immagine fissato nei loro pensieri, nella loro memoria.

«L'Italia è un paese ideale per viaggiatori, come d’altronde è sempre stato con il contributo di ogni ceto, dal milord con tanto di seguito, a colui che ha per compagno soltanto la sua ombra. Nessuno ha bisogno di accampare scuse: se uno è ricco, viaggia per divertirsi; se povero, per tirarsi su; se è malato, per guarire; se è dedito agli studi, per imparare; se colto, per trovar svago dall’applicazione», così scriveva Samuel Rogers (1763 - 1855) nella premessa al suo fortunatissimo poema in versi Italy che, grazie anche alle preziose tavole appositamente realizzate dai migliori illustratori dell’epoca, a cominciare dal Turner, doveva divenire la guida romantica più diffusa. Se già nel Seicento, infatti, il viaggio attraverso le principali città dell’Europa veniva sentito come “bisogno esistenziale” dell’intellettuale, è nel Settecento e nei primi dell’Ottocento che diventa addirittura “abito mentale”, perché tale viaggio, confidava l’appena ricordato poeta Rogers all’amico Byron, «ci restituisce in sommo grado quello che noi abbiamo perduto».

Sentimenti ed emozioni, stupore e turbamento che ancor meglio comprendiamo grazie alle immagini lasciate da tutta una lunga teoria di pittori che sin dal Settecento, sostituitisi ai salmodianti pellegrini del Cinque-Seicento, percorsero quell’universo ancora tutto da esplorare per ritrarlo in una infinità di quadri, ripetendolo da infiniti punti di vista e con tagli sempre nuovi, ciascuno cogliendone un aspetto, una tessera, un protagonista filtrato dalla propria sensibilità, dando luce e colore, attraverso il medium dell’immagine, al proprio “stato d’animo”.

 

E ciò sino ai primi dell’Ottocento, quando il marchese René de Chateaubriand scrisse quella famosa Lettera su Roma a Louis de Fontanes nella quale, dopo aver ammonito che la Campagna romana se studiata da economista era uno spettacolo veramente desolante, precisava poi invece che da poeta o da filosofo era una tale visione che «non vorresti fosse altrimenti».
   E sull’onda emotiva di questa immagine letteraria – che ha il segreto di arrivare ai nostri sentimenti senza neanche passare per la mente – si ricordano alcuni viaggiatori infaticabili, appassionati eruditi, diaristi efficaci, collezionisti inappagabili che nel Settecento vennero a Roma a cominciare da John Evelyn (1620 – 1706),  un vero e proprio “capostipite” nella storia del Grand Tour il quale, dopo aver descritto i monumenti, i palazzi e le chiese romane che via via andava visitando con occhi attenti e competenti, tanto da definire Roma “orgogliosa signora del mondo”, alla vista della Campagna circostante senza mezzi termini confessava che i suoi pensieri “si elevarono” e giunto a Velletri, era forse l’ora del pranzo, più prosaicamente annotava «qui sostiamo e beviamo dell’eccellente vino».

 

 

 


 
 
 
 
 
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